Vince chi si adatta? O forse è meglio accettare o rassegnarsi?

In natura l’organismo che biologicamente meglio si adatta all’ambiente esterno sopravvive. Questo processo non indica necessariamente che tale organismo sia il più forte, se per forza intendiamo solamente quella fisica, bensì sono richieste qualità più complesse quali ad esempio l’intelligenza, la furbizia, il mimetismo, l’aggregazione, il mutamento metabolico o la resilienza. Oggi sappiamo che un virus diventa molto resistente perché si adatta all’organismo in cui vive, muta e si diffonde.

Spesso tendiamo a dare valenza negativa al concetto di adattamento perché ci evoca la sensazione di sfruttamento, passività e sottomissione o a qualcosa che non vogliamo ma che siamo costretti a ingoiare. Adattamento e rassegnazione sono però due scenari diversi.

La parola rassegnazione, secondo la Treccani, deriva dal latino re-e-signare, ovvero riconsegnare, rinunciare, dimettersi e subire la costrizione della volontà altrui. In campo relazionale la rassegnazione affettiva è un sacrificio dei propri bisogni a favore di chi amiamo mentre nell’ambito territoriale rappresenta il fallimento.

Tutt’altra storia dunque dall’adattamento il cui tema originario deriva dal latino ad-e-aptare, rielaborare o aggiustare qualcosa per raggiungere uno scopo o anche acquisire caratteristiche diverse per adeguarsi alle nuove condizioni esterne.

A volte l’ambiente in cui l’organismo è immerso può essere non proprio ottimale, una persona può avere l’impressione di sentirsi “un pesce fuor d’acqua” e a disagio, eppure nella semplice intelligenza organismica è spinto biologicamente a costruire qualcosa d’altro, scegliere una meta, un fine personale e soggettivo. Ed è proprio in tali situazioni difficili esterne che riceviamo le spinte più forti, i cosiddetti “calci nel sedere”, per cercare e trovare ciò che vogliamo veramente. L’adattamento è un atto volontario creativo, non a caso è sinonimo di allestimento di scenografie teatrali e cinematografiche ad una storia. Utilizzando una metafora è come avere una palla di plastilina colorata da plasmare nelle proprie mani che cattura la nostra attenzione e ci permette di sperimentare e giocare nonostante ci troviamo in mezzo a un mondo che corre all’impazzata in bianco e nero.

Durante questo processo più o meno lungo di adattamento e di messa a fuoco di ciò che vogliamo, accade ovviamente che ci imbattiamo nelle cose che non vogliamo e che ci frustrano o irritano e … magicamente meno le vogliamo e più le incontriamo! La via d’uscita è la pura e semplice accettazione.

Ma in questo caso per accettazione non si intende che dobbiamo dare pieno accesso dentro di noi alla realtà che stiamo vivendo, farcela andare bene e lasciarla dimorare a lungo, bensì riconoscerle il pieno diritto e rispetto all’esistenza, anche se non ci piace. È nel momento della sua completa riconoscenza così come appare che ce ne sganciamo, lasciandola libera e seppur ci risulti tanto irritante finisce per perdere di importanza, non alimentata dalla nostra energia, da pensieri ed emozioni malsane che ci consumano tempo prezioso.  Da questa condizione di non importanza di realtà esterna possiamo modellare la plastilina o fare altro che abbia maggior valore per noi e per i nostri obiettivi, assecondando un naturale mutamento interiore.

In fondo la natura è vita e l’adattamento è un processo di mantenimento della vita stessa.

Elena Milocco
Counsellor

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